• edizione 2000 - Fondazione Museo Giuseppe Mazzotti 1903 Albisola

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• edizione 2000

GIARDINO G.M.A.





"Un Giardino Museo per la Ceramica di Albisola"


Nuove opere 2000

Attilio Antibo, Patrizia Guerresi, Liliana Malta, Claudio Manfredi, Giorgio Venturino
Mostra a cura di Martina Corgnati
Progetto di Tullio Mazzotti e Federico Marzinot
Catalogo a cura di Paula Cancemi



Questione di pelle 2000

di Martina Corgnati


Nel panorama delle ricerche artistiche contemporanee, isolare il lavoro sviluppato su un materiale particolare come la ceramica risulta operazione indubbiamente rischiosa e difficile; e questo non certo perché la ceramica non abbia avuto occasione di affrancarsi nel corso del secolo appena trascorso da sospetti di "artigianalità" e, per così dire, di "inadeguatezza linguistica" più volte sorti in passato nei suoi confronti.
Anzi: attraverso il lavoro di protagonisti delle avanguardie storiche, come Braque e Picasso, e delle neo-avanguardie, come Fontana, Jorn, Leoncillo, Melotti, Baj e Dangelo, la ceramica si è qualificata a pienissimo titolo come uno dei materiali dell’arte contemporanea più indispensabili ed insostituibili per tutti quei talenti (diffusi soprattutto negli anni Cinquanta in rapporto alla poetica dominante in quella fase storica: l’informale) cresciuti nell’esercizio diretto e morbido del modellare e dell’integrare senso plastico a senso pittorico, forma a colore, corpo a superficie.
E’ questo infatti il contesto culturale in cui la Fabbrica Casa Museo Giuseppe Mazzotti (nata nel 1903 e oggi guidata da Bepi Mazzotti) è fiorita ed ha incontrato il proprio apogeo, collaborando attivamente con i migliori artisti di passaggio (più o meno frequente) in Riviera.
E va detto che è anche grazie ai risultati ottenuti nei suoi laboratori che la barriera ideologica sollevata fra arti cosiddette belle ed arti applicate si è fatta più sottile o è stata completamente abbattuta.
Oggi però le cose sono profondamente cambiate, e mentre una nutrita schiera di ceramisti continuano a seguire le orme e l’esempio (non soltanto formale ma relativo alla modalità di intendere il lavoro) di quei grandi maestri attivi quaranta o cinquant’anni fa in un contesto drasticamente differente, l’arte contemporanea, da parte sua, sembra aver imboccato con decisione altre strade.
Strade in cui il materiale (sia esso ceramica o vetro o mosaico o persino pittura), con tutto il suo corollario di tecnica specifica se non anche di virtuosismo, non conta più molto.
Al contrario, la parola oggi è passata da una parte alla tecnologia e dell’altra all’ideazione, alla dimensione concettuale (non letteraria) del lavoro, cioè la risorsa e lo strumento cui è stato delegato il difficile compito di farsi carico della relazione e della "presa" sul mondo.
Ma in realtà non è nemmeno così, o meglio non è soltanto così: il mondo dell’arte non si fa delimitare in una formula a senso unico ed il paesaggio della creatività, oggi più che mai nell’epoca del dominio tecnologico, è costituito da compresenze simultanee e niente affatto coerenti o omogenee che, infine, concorrono tutte a sancire l’ascesa sempre più libera ed eclettica dell’individualità, al di là di qualsiasi purismo tecnico.
Quanto più le forze si concentrano, dunque, per consentire la produzione di progetti ad altissimi costi e complessità, tanto più, al di sotto di questo primo livello e in varia comunicazione con esso, prolifera un territorio misto, dove l’unico criterio veramente fondante è quello della necessità.
Gioco apertissimo e contagioso, che in qualsiasi momento può autorizzare la rimessa in circolo di qualsiasi cosa, elemento o cifrario o materiale estrapolato dalla tradizione purché gradito e "autentico" nel contesto del lavoro di un artista.
E’ questo il livello cui si colloca oggi la sfida di Tullio Mazzotti: quella di portare nuova linfa al Giardino della Ceramica in occasione del prossimo anniversario dei cento anni di fondazione della fabbrica (2003), attraverso l’acquisizione, la pubblicazione e la valorizzazione di un certo numero di nuovi pezzi l’anno da accostare alla raccolta "storica", già sedimentata nei decenni, e collocata tuttora sotto la protezione diretta di un grande ed irascibile Coccodrillo di Lucio Fontana.
Questo giardino non è, naturalmente, né fabbrica né museo: concettualmente, innanzitutto, se il museo è il luogo della conservazione e la fabbrica quello della produzione, il giardino, "fuori porta", è il luogo della concentrazione e della vita, come tramanda la cultura monastica; luogo comunque di un’esperienza attuale, in piena fioritura, e quindi ben lontana dall’esaurirsi in una riproposizione più o meno superficialmente aggiornata di fasti trascorsi; ma più vicina, invece, a darsi come occasione stimolante di verifica sulle possibilità della ceramica in tutte le sue forme, della ceramica come "chiave" capace di schiudere le porte del significato, di un significato possibile del fare arte, della posizione dell’arte e delle cose.
Chi sono, quest’anno, gli interpreti chiamati a rispondere alla sfida di Tullio Mazzotti, coloro che, come testimonia opportunamente lui stesso, vogliono collaborare a creare "quelle occasioni, se non quell’ambiente, che in passato consentivano di parlare d’arte, dei suoi contenuti e del suo linguaggio espressivo ?" Patrizia Guerresi, Liliana Malta, Attilio Antibo, Giorgio Venturino e Claudio Manfredi nella posizione particolare di "amico della famiglia Mazzotti": al punto che la sua opera è frutto di una collaborazione con Tullio e che la collocazione in giardino risulta una specie di esito naturale, quasi nel senso della testimonianza del percorso compiuto insieme.
Per questo è opportuno prendere le mosse proprio da quest’opera, perché esemplare di come "con la ceramica niente è impossibile", come scrive Manfredi stesso, e d’altra parte come in essa convergano istanze, idee e riflessioni del tutto diverse, estranee, se vogliamo, ad una tradizione e ad una cultura esclusivamente o eminentemente tecnica.
Il vino del ceramista: una figura umana gravata dal peso di alcool in quantità eccessiva, o dalla notte insonne trascorsa accanto al forno (nella versione originale e nella prima ideazione di questo lavoro eseguito nel 1997 in occasione di CeramicAmica), ed accanto un’enorme bottiglia completa di etichetta che qualifica indubitabilmente la sua destinazione: l’uomo che le sta accanto, dominato anche fisicamente dal suo porsi imperativo ed ironico.
Una bottiglia che ha una storia, proprio come la figura, incominciata in occasione di un’esposizione sulle biotecnologie, a Stella S. Martino, nell’entroterra.
Pertanto, anche l’antichissimo, tradizionalissimo e insospettabile vino, come le tecnologie di ultimo conio, può essere un’arma a doppio taglio.
Detto altrimenti: il problema dell’arte non è quello di fare informazione approssimativa e di bassa lega su argomenti noti soltanto attraverso qualche articolo di giornale, ma di dar corpo, visualmente, ad un paradosso, alla superficialità con cui si considerano certi temi su cui si crede di sapere tutto e ci si monta la testa con preoccupazioni inaudite su veri e propri fantasmi, magari privi di consistenza.
E la ceramica dice tutto questo con molta originalità, travestendosi per l’occasione da corpo morbido, convesso, ironico, affetto da gigantismo, come spesso accade alle materie plastiche, ma questo senza tradire la propria natura più essenziale ed interna di calore, di consistenza e pregnanza tattile.
Alla presenza perentoria dell’opera di Manfredi si contrappone la linearità dell’opera di Antibo, una sorta di riassunto di tutte le sue esperienze e la sua storia creativa, fondata su un profondo interesse per i materiali più vari, spesso "trovati" fra quanto riconsegna il mare alla spiaggia.
Un esercizio di questo genere era già stato lungamente praticato da Joan Mirò sulle spiagge di Mallorca: un artista, non a caso, cui Antibo ha sempre guardato come ad un modello, nei colori e nella sobrietà delle forme, nella mancanza di leziosità e di ricercatezze superflue.
L’opera, dunque, scaturisce per così dire spontaneamente da quanto l’incontro fra i materiali stessi suggerisce.
Pezzi di ferro, tubi di ceramica, elementi lineari che si elevano tutti insieme da una base, costituiscono i presupposti di un possibile paesaggio, discontinuo ed aperto, diametralmente opposto a qualsiasi ideale di "modellazione"; paesaggio però, in cui Antibo riconosce un canneto, un ambiente palustre, trasformando con molta semplicità il tubo in canna e collocandovi persino un ranocchio.
Indubbiamente un’opera, come l’artista sottolinea nel suo intervento, pensata appositamente per il giardino, con cui deve integrarsi giocando ai margini della simulazione fra "vero" e "falso", fra natura e cultura.
Ciò che emerge, comunque, già soltanto al confronto fra questi due primi lavori, è la notevole versatilità della ceramica declinata secondo i modi del linguaggio più attuale; ceramica , o terracotta, che si mimetizza, si confonde con altro, esce letteralmente dal seminato e si presta a restituire le intenzioni e le forme espressive più diverse.
Come conferma, se mai ce ne fosse bisogno, il lavoro di Patrizia Guerresi, un’artista fra le più interessanti attive oggi in Italia, che negli anni ha coltivato un lavoro sulla terra accanto a quello su altri materiali, per esempio il video, o l’installazione, o la fotografia; modalità, tutte, che oggi convergono a definire un lavoro maturo e originale, concentrato su pochi temi ricorrenti: l’universo femminile, la sacralità.
Non a caso l’opera proposta ad Albisola è costituita da una serie di piccoli tappeti in terra, decorati con la sagoma di un tempio islamico stilizzato, sulla quale è posta in nitida evidenza l’impronta di piedi maschili e femminili.
Piedi in preghiera, si potrebbe dire, fermi e concentrati di fronte alla dimensione sacra, ma ciascuno secondo le proprie posture particolari e soggettive, più vicini o più distanziati, più fermi o più dinamici, più definitivi, in un certo senso, o più provvisori.
Il corpo, quindi, un corpo pieno di valori, è quindi tutto presente attraverso il semplicissimo ed efficacissimo espediente dell’impronta che la terra raccoglie davvero in presa diretta, conservandone tutta la profondità del passaggio, dell’avvenuto, del tempo trascorso come nessun altro mezzo avrebbe potuto fare, in maniera assolutamente naturale.
Ed è superfluo dire, naturalmente, quale sia il senso del tappeto, di questa superficie di terra posta sulla terra e che pure dalla terra si eleva, come una soglia si eleva dal luogo e conduce in un altro luogo, esclusivamente spirituale, e che pertanto va conquistato attraverso uno stare autentico: un accesso niente affatto ovvio, una "porta stretta" comune a tutte le tradizioni e pertanto davvero universale.
Non così diverse le intenzioni di Giorgio Venturino, che nel lavoro di quest’anno coniuga con originalità due forme attinte dal grande repertorio delle tradizioni remote ed arcaiche: la spirale e la piramide.
Cominciamo con l’ultima: sarebbe superfluo ricordarne il valore magico ed ermetico, la funzione di collegamento fra cielo e terra e, al tempo, stesso la funzione di concentrazione dell’energia terrestre in un punto, il valore matematico ed architettonico, per cui essa viene prescelta dalle dinastie dei faraoni e dei sacerdoti egiziani ma si diffonde anche in luoghi del mondo profondamente dissimili, quali il Messico dei Maya e degli Atzechi.
L’assolutezza della piramide, però, la sua perentorietà geometrica non corrisponde probabilmente appieno all’irrequietezza culturale ed esistenziale di Venturino, che infatti vi innesta sopra un intero vivaio di piccole spirali in terra, una proliferazione di corpi spiraliformi in miniatura che, per certi versi, ricorda i depositi di ex-voto spesso accostati ai templi buddisti giapponesi, ricchi di migliaia e migliaia di figurine umane accumulate e donate in ricordo di qualcosa ormai indecifrabile ma che ha a che fare tanto con la morte quanto con la vita.
Proprio come accade anche all’aggressiva forma della spirale, che Venturino potrebbe aver desunto quasi alla lettera dal celebre quadro di Tintoretto raffigurante la torre di Babele, simbolo dell’ascesa verso il cielo ma anche, consustanzialmente, della discesa verso gli inferi.
I due passaggi sono intimamente collegati, anzi sono la stessa cosa, come l’artista silenziosamente ricorda nel suo lavoro, il cui fascino, però, lungi dal concernere soltanto l’aspetto concettuale, risulta determinato soprattutto dal singolarissimo paesaggio in miniatura che viene formandosi sulla faccia della piramide gremita di spirali. Un paesaggio che, visto da vicino, suggerisce qualcosa di tibetano, di orientale, trattiene singolari atmosfere cappadoci e, al tempo stesso, non si discosta dall’essere una sorta di densa coltura per progetti o sogni o forme di divenire in crescita apparente.
Il lavoro di Liliana Malta, infine, vive in una dimensione composita, basata sull’integrazione fra pittura, scultura e modellato, fra forma, colore e luce, gli ingrediente che hanno determinato da sempre il suo lavoro. "Il corpo della terra", ha scritto di lei Enrico Mascelloni "è il corpo che si fa terra, assumendo tutta al struggente malinconia delle superfici "lavorate" dal tempo, dalla storia, dalle passioni e chissà da cos’altro ancora".
Sicuramente si tratta di un corpo dall’apparenza arcaica, altera, essenziale, lontana da ogni compiacimento, rivolta all’alto come a rappresentare attraverso il suo termine opposto (appunto la terra, quindi per estensione la carne, il vincolo che ci tiene legati al suolo) una sicura idea di volo.
Prima di lei, esplicitamente, ci aveva provato Brancusi, uno dei dichiarati punti di riferimento della scultrice: per esempio in quel capolavoro intitolato Il gallo che sposa un motivo semplicissimo desunto con ogni probabilità da un tessuto africano con un irresistibile senso di ascesa, di tensione verso l’alto, ottenuta, però giocando sulla diagonale, su una mediazione simbolica fra cielo e terra.
Terra, appunto. Quella a cui Liliana Malta affida oggi il suo stacco.





 
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