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"Un Giardino Museo per la Ceramica di Albisola"
Nuove opere 2002
Rolando Giovannini, Giampaolo Parini, Raimondo Sirotti, Giovanni Tinti
Mostra e Catalogo a cura di Martina Corgnati
Progetto Tullio Mazzotti
Coordinamento Paula Cancemi
Ceramica come prospettiva culturale
di Martina Corgnati
E così è trascorso un altro anno. Un anno importante, che a casa Mazzotti ha visto prodursi parecchi cambiamenti e, direi quasi, un salto di livello nell’ambizione e nella progettualità, con un conseguente, significativo adeguamento di carattere istituzionale. Il Giardino-Museo oggi infatti è, a tutti gli effetti, fondazione: uno status che tutela e valorizza non soltanto il cospicuo patrimonio già raccolto fra queste piccole mura in questo piccolo-grande spazio (perché lo spazio è un po’ come il tempo: si dilata o si concentra secondo il gusto, l’interesse, la fantasia, il talento e la curiosità di chi lo abita) ma soprattutto ne garantisce la progettualità, la continuità di iniziative; insomma la vita, il futuro, l’esigenza di essere non un’istituzione statica ed implosa su se stessa, quindi compresa in una dimensione esclusivamente e riduttivamente conservativa, ma, al contrario, di proporsi come centro vivo, aperto alla sperimentazione, una vera e propria "casa" per tutti quegli artisti che sentano l’esigenza di confrontarsi con questo materiale di tradizione e saperi antichi che è la ceramica.
La Fondazione Giuseppe Mazzotti 1903 è e sarà un centro di produzione e di valorizzazione del loro lavoro, oltreché un luogo di incontro, di scambio, di discussione sull’arte e sulla ceramica, oltreché una sede espositiva riconosciuta ormai e nota, grazie al proprio patrimonio unico, in un ambito sempre più vasto.
Alcune, significative esperienze recenti hanno dimostrato come non sia affatto facile, nemmeno ad Albisola, conciliare la storia con il presente, mettere fianco a fianco testimonianze effettive di quel passato aureo che, com’è noto, in questa cittadina ligure sono stati gli anni Cinquanta e ancora prima la stagione futurista, e prodotti contemporanei. Per un confronto effettivo ed interessante fra passato e presente, in altre parole, non bastano le intenzioni, non basta immettere a tutti i costi nel linguaggio ceramico forme espressive concepite e cresciute altrove, con altre modalità, altri linguaggi, altre tecniche. Bisogna che il contatto con il passato diventi qualcosa di vivo, e l’artista sia disposto a rischiare di conferire al proprio intervento un altro senso in relazione a quello specifico che la ceramica è, come peraltro qualsiasi altro materiale dotato davvero di una propria forza.
Inoltre c’è Albisola, un luogo che per darsi, per mostrarsi davvero nelle sue straordinarie risorse e compresenze di memoria e di attività produttive, deve essere respirato, vissuto con quella disponibilità profonda che, spesso, determina un reale cambiamento nel lavoro, un’evoluzione o uno spostamento nel fare e nel voler fare. Se tutto questo non accade, non c’è confronto vero, non succede niente.
Come infatti, in occasioni recenti, non è successo niente: il passato resta inarrivabile lettera morta e il presente va per la sua strada che non passa necessariamente per la riviera ligure. Noi, invece, stiamo parlando di un luogo, in cui il confronto può attuarsi per così dire spontaneamente, dove la storia è lì, a portata di mano, fuori da vetrine e bacheche troppo asettiche, e sostiene tutti i giorni l’attività produttiva e creativa.
A casa Mazzotti la storia è un ambiente in cui il tentativo è continuamente quello di ricreare le condizioni innanzitutto di spirito e di dialogo che hanno fatto grande l’Albisola di mezzo secolo fa, senza insistere a vivere soltanto di rendita (gioco da possidenti, da citazionisti o da filologi ma non da artisti) ma senza nemmeno truccare i dati della ricerca contemporanea e facendo della ceramica, per esempio, una forma di arte concettuale, dimensione che le sta davvero troppo stretta o troppo larga ma comunque non le calza affatto. Oggi, qui, si può dire che il clima sia profumato dall’attesa di un grande evento, la mostra del centenario della Fabbrica, in programma per il 2003. Nella prospettiva di questo momento, di questa grande sintesi sull’attività compiuta in un secolo, concepita sempre come base di partenza e trampolino per un avvenire altrettanto significativo e non come sterile celebrazione di qualcosa che è soltanto memoria e che, al massimo, può vivere in forma museificata, è però del tutto naturale, quest’anno, indugiare un momento a guardarsi intorno e tracciare alcuni bilanci: innanzitutto, il Giardino accoglie ormai quaranta opere. I 30 minuti con la ceramica e l’arte, lo slogan ideato dai Mazzotti per proporre il proprio spazio e la propria offerta culturale a tutti i turisti, a completamento di una giornata in spiaggia o di una domenica di relax in Riviera, si rivelano un tempo sempre più insufficiente per una visita tranquilla e riflessiva a questo spazio sempre più ricco e denso, uno spazio che si percorre in un minuto ma che non si vede e non s’intende in meno di un’ora; dove le opere sembrano stratificarsi nel tempo ma, miracolosamente, senza disturbarsi a vicenda, consentendosi comunque un adeguato "respiro", un adeguato "silenzio" intorno. Il che è un ulteriore riprova della versatilità della ceramica, della sua, mi si consenta il termine, "naturalità", che le permette di interagire in modo creativo con un contesto apparentemente inadatto come un giardino senza disturbarne gli equilibri fondamentali: senza trasformarsi, in altre parole, in un pasticcio velleitario.
Proprio tenendo conto di questo carattere anche "decorativo" e anche "ambientale" del materiale, quest’anno sono state scelte opere ed installazioni pensate più che in passato per e nello spazio, il cui senso e il cui valore vive ed esiste in relazione al luogo, attraverso una relazione intima, metaforica o strutturale, con l’ambiente intero. Innanzitutto l’opera di Rolando Giovannini, un vero maestro della ceramica, il cui lavoro si inserisce, per tecnica e per impianto formale, proprio al cuore della tradizione produttiva e creativa, utilizzata però in funzione delle forme già esistenti del giardino: in particolare la facciata del corpo di fabbrica centrale, considerato dall’artista non come semplice supporto per il proprio pezzo ma come grande "segno" dotato di circostanze, spazi e valori propri. Su questo "segno", appunto, preesistente, né brutto né bello ma tuttavia caratterizzato e caratterizzante, interviene il contributo dell’artista, in forma di ri-qualificazione e messa a fuoco di geometrie, proporzioni e colori. Si tratta di 4 pannelli, composti ciascuno da tre file di piastrelle quadrate, inquadrati da una bordatura di piastrelle in cotto rettangolari e alte la metà esatta delle piastrelle dei pannelli, rifilati secondo la larghezza delle finestre dell’edificio. Difficile immaginare qualcosa di più semplice e più tradizionale delle piastrelle, composte secondo una modalità semplicissima. Ma la semplicità, come si sa, è un punto d’arrivo non sempre facile ed accessibile, e questa composizione di forme tanto semplici risulta qui proprio la migliore per definire le forme complessive della facciata e valorizzarla nel suo complesso, "completando" le linee che già la caratterizzavano e che, appunto, discendono a piombo dalle aperture al suolo, interrotte solo rivestimento in cotto industriale inferiore che giunge sino a terra, sull'aiuola. Così, attraverso la ripresa e la replicazione, il disegno astratto e quasi l’increspatura che decora ogni piastrella diventa un modulo fisso, insistito, una connotazione stabile impressa percettivamente sull’insieme della superficie. I colori, poi, rimandano alla storia: c’è lo smalto matt, dal sapore futurista, che richiama l’illustra passato della Fabbrica Mazzotti e le roboante stagione di Tullio d’Albisola, la preparazione a sottovernice che consente tonalità sgargianti e cristalline, memori, forse, delle intemperanze informali che hanno avuto, anch’esse, una fioritura così importante ad Albisola; e c’è la più semplice decorazione cristallinata, senza l’aggiunta di nessun tono cromatico, che potrebbe quasi essere intesa come vocazione per un presente necessariamente più introspettivo e moderato.
Anche Raimondo Sirotti ha scelto di lavorare sulla superficie, conferendole però un valore autonomo, di vera e propria "finestra" nello spazio aperto del giardino, dotata di un preciso e non equivoco valore pittorico, peraltro caratteristico del linguaggio dell’artista genovese. L’aspetto saliente, in questo lavoro, è dato dall’attenzione puntigliosa alle sfumature, alle dissolvenze atmosferiche, alla fusione e all'integrazione dei colori l'uno nell’altro evitando il ricorso ad ogni elemento lineare troppo nitido e perentorio, fino a costituire una "scena" luminosa e coinvolgente, dall’insospettabile profondità: un effetto, quest’ultimo, difficilissimo da ottenere attraverso la ceramica che, per la sua stessa conformazione, densità materica e opacità "naturale", mal si presta a suggerire un possibile vuoto interiore, una specie di intrinseca, ariosa morbidezza che cattura lo sguardo e lo lascia penetrare e fermarsi a lungo.
Giampaolo Parini e Giovanni Tinti lavorano invece su forme plastiche, sulla modellazione di corpi complessi e conclusi in se stessi, la cui relazione con l’ambiente si pone ad un livello non decorativo o strutturale ma piuttosto metaforico e letterario. Giovanni Tinti, innanzitutto e il suo Albero della vita. Un albero, per l’appunto, che in quanto tale, si rapporta inevitabilmente con gli alberi veri e propri che crescono e prosperano sul prato e fra le sculture. Ma si tratta di un albero simbolico, dai colori forti e niente affatto naturalistici, il cui impatto è ulteriormente sottolineato dalla forma circolare che sembra sbocciare o fiorire su una specie di stelo, cioè il basamento della scultura, interrompendone lo sviluppo verticale. Sfera e cilindro; poi sul corpo convesso del solido geometrico, interviene un rilievo minuzioso e quasi calligrafico ad animare la superficie, conferendole una specie di vibrazione interna, ulteriormente sottolineata dal contrasto cromatico bianco/blu che distingue e separa il rilievo dal fondo. Cielo e terra, pieno e vuoto, cosa manca ? l’oro, completamento metaforico di tutti i processi alchemici, punto d’arrivo di tutte le trasformazioni riuscite, che infatti Tinti aggiunge alla sommità della sua opera, quasi come una piccola ma nobilitante corona.
L’analogia con il regno vegetale sostanzia anche l’opera di Giampaolo Parini, specie di spaesante e fantasiosa Dafne contemporanea. Si tratta di un busto femminile dagli occhi vuoti, il capo incorniciato da una corona di foglie (il famoso "lauro" dei poeti ?), seno e spalle coperte da una specie di fiorito decoltè in blu e bianco. Quasi una figura magica, vestita di fiordalisi. L’analogia con la mitica Dafne però è data soprattutto dal cilindro che ne contiene il corpo appena sotto il seno, impedendone tutti i movimenti, qualsiasi dinamismo, ogni accenno di fuga. Al fondo del cilindro, una tarsia di foglie dall’aspetto solido come il bronzo, completa l’insieme. Nel complesso si tratta di una presenza ambigua e un poco inquietante a causa di quel volto straniato, modellato con notevole sensibilità naturalistica: non è chiaro se la donna, nella sua implacabile fissità, stia diventando albero, se l’albero stia assumendo invece forma umana o se la donna sia semplicemente un fantasma o spirito della vita vegetale da cui trae con ogni evidenza la linfa vitale. Se Delvaux passasse da Albisola certamente potrebbe apprezzarlo, questo lavoro così anomalo e metamorfico.
Completa il tutto un elemento apparentemente banale, che quest’anno si è voluto fare oggetto di un’operazione quasi concettuale anche se, a prima vista, soltanto decorativa. Che cosa c’è infatti di più banale di un dondolo, un dondolo collocato in un bel giardino, per riposare, per soffermarsi, per godersi la brezza serale ? Questo dondolo però, con la collaborazione di Deanna Ciarlo e Nico Librandi, pittori nella Fabbrica Giuseppe Mazzotti ed entrambi allievi di Torido Mazzotti, è stato dipinto in stile "antico Savona", come se si trattasse di ceramica, occultando quindi, o meglio detournando in un sorridente gioco mistificatorio, il materiale vero della seduta e dello schienale, cioè una semplice tavola di legno.
Ma, d’altra parte, che cosa ci può fare un dondolo di legno in un giardino tutto di ceramica ?