2002 - Vietato calpestare l'erba - Fondazione Museo Giuseppe Mazzotti 1903 Albisola

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2002 - Vietato calpestare l'erba

IL TORNIO notiziario culturale della ceramica
il Tornio Notiziaruio Culturale della Ceramica

"E' VIETATO CALPESTARE L'ERBA"
Mostra di disegni su carta di Tullio Mazzotti
Fondazione - Museo GIUSEPPE MAZZOTTI 1903
sabato 26 ottobre 2002, Albisola
a cura di Franco Dante Tiglio




E' stata presentata al pubblico sabato 26 ottobre 2002 la mostra di grafica su carta di  Tullio Mazzotti intitolata "Vietato calpestare l'erba".
Nel corso della vernice la scrittrice Bruna Magi ha condotto un didattito sul tema "Dimentichiamoci l'eternità: quando scade un opera d'arte?".
Sono intervenuti: Oscar Albrito, Germano Beringheli, Antonella Briuglia (assessore alla cultura del comune di Albisola Superiore), Carlos Carlè, Secondo Chiappella, Stefano Parodi (sindaco di Albisola Marina), Franco Dante Tiglio.
L'artista ha esposto 130 disegni su carta (dimenzione cm 70 x 100) disponendoli sui viali del giardino e invitando (attraverso il titolo della mostra) i visitatori a camminare sulle sue opere.
L'intento è stato quello di far provare allo spettatore delle emozioni (inevitabilmente calpestando i disegni) e attraverso esse affrontare i temi critici della mostra ovvero: cosa debba fare oggi l'artista attraverso la sua arte, se l'opera d'arte sia o meno eterna, quali sono i rapporti fra artista-mercato-fruitore.
L'inaugurazione è stata video ripresa da Fulvio Cerulli e la RAI ha effettuato un servizio giornalistico a cura di Pierantonio Zannoni.
Tutti i disegni sono stati fotografati prima della mostra e successivamente recuperati e conservati.


Testi critici

La componente ludica della mostra di grafica di Tullio Mazzotti investe aspetti complessi, che riguardano il rapporto dell'artista con la propria opera e con lo spettatore.
Sede della singolare esposizione è il Giardino Museo della Fondazione Giuseppe Mazzotti, disegnato ad aiuole e viali, luogo familiare ad un vasto pubblico di cultori d'arte, sia per la presenza di numerosi lavori di illustri Maestri, sia per le periodiche manifestazioni artistiche che vi si svolgono durante il periodo estivo.
Solitamente, nel corso di tali appuntamenti, lo spettatore circola liberamente lungo i viali e sui verdi tappeti delle aiuole. Ma, in questa occasione, Tullio Mazzotti, con i suoi grandi disegni, ha ricoperto interamente il selciato dei viali, cosicché, a causa del divieto di calpestare l'erba, non resta al pubblico altra alternativa se non quella di camminare sopra i disegni.
Questa soluzione crea una comprensibile perplessità, poiché si può calpestare impunemente un foglio di carta anonimo, ma non un'opera che contiene un messaggio artistico.
Bloccato fra il divieto di calpestare l’erba e la riluttanza a camminare sui disegni, lo spettatore può uscire da questo impasse soltanto se affronta risolutamente il compito che Mazzotti gli ha delegato e cioè quello di valutare la qualità dei disegni e decidere, caso per caso, di camminarvi sopra se il giudizio sarà negativo, o di risparmiarli, in caso contrario.
Non è la prima volta che un artista induce il pubblico a camminare sulle sue opere.
Lo aveva fatto Pinot Gallizio con la “Caverna dell'antimateria" alla Galleria Drouin di Parigi (1959) e, ad Albisola, Secondo Chiappella, allorché, nel 1972, aveva tappezzato la piazza del Comune con disegni (su plastica) di “corde”, che simbolicamente imprigionavano spazio e pubblico.
Non è compito del presentatore, in questo caso, procedere ad un esame critico dell'opera grafica di Tullio Mazzotti; tale esame, come si è detto, è stato demandato al pubblico.
Mi soffermerò, invece, sulle motivazioni implicite nella manifestazione.
Dalla quale si può anzitutto dedurre che un’opera artistica esiste come qualcosa che è in grado di trasmettere qualcos’altro a qualcuno; il segno inventato dall'artista concretizza un significato soltanto a posteriori, nella comunanza di esperienze emozionali fra artista e fruitore.
L’allestimento e il metodo espositivo di Tullio Mazzotti si basa su questa concezione.
Inoltre, con la sua azione, Mazzotti non solo abolisce i rituali tradizionali del consenso convenzionale, ma anche qualsiasi interferenza di tipo auratico fra il suo lavoro e lo spettatore, partendo dal principio che il valore artistico di un'opera non è dato come qualcosa di scontato.
E' lo spettatore che, di fronte all’opera, deve assumere un ruolo non più marginale, ma essenziale: quello di protagonista e giudice.
Questa mostra è quindi una sfida al sistema dell'Arte ed è diretta a instaurare un rapporto fra opera e fruitore fondato sul consenso reale e non su quello artefatto, manipolato dai mezzi persuasivi del mercato.
Mazzotti è particolarmente sensibile al rapporto fra artista-opera-pubblico: emancipando l'opera dai legami con il suo stesso creatore e dalla influenza del mercato, egli la riconsegna direttamente al suo vero e unico fruitore finale: il pubblico.
A sua volta il pubblico non può limitarsi a uno sguardo distratto; il suo giudizio diventa decisivo per la stessa sopravvivenza dell'opera: se questa è artisticamente valida, vive, in caso contrario, viene “sacrificata”.
E' messo alla prova il tasso artistico dell'opera, ma anche la capacità di giudizio dello spettatore, il quale è posto sullo stesso piano del creatore, anzi, un po’ più su, poiché deve giudicare ciò che l'artista ha creato.
L’azione di Mazzotti è anche un atto di umiltà e di ricerca di assoluto.
Egli non esita a compiere un atto spartano e stoico nei confronti del suo lavoro, per una esigenza di verità. Per attuarlo bisogna credere a qualcosa di più alto e di più forte dello stesso sentimento di attaccamento alla propria arte.
Nel momento in cui si parla tanto di Arte che non stimola, Mazzotti instaura una situazione che fa scattare una forte presa di coscienza da parte del pubblico e che, per di più, si inquadra nella tradizione dei gesti più significativi e trasgressivi, operati dagli Artisti di Albisola nella loro ricerca di assoluto, dai futuristi degli anni '20, ai buchi e tagli di Fontana (1949), agli exploits di Piero Manzoni (“Linea infinita”, Galleria del Pozzetto, 1959, “merda d’artista”, Galleria Pescetto, 1961) e di Aurelio Caminati (“I falsi ideologici”, Galleria A 77, 1966), alle performances di Jorn (uso della Lambretta sul pannello in ceramica di Aàrhus, 1959), di Nicola Petrolini (Galleria dei Leuti, 1970), di Chiappella (1972), già ricordata, di Agostino Scrofani ("10 Personaggi per un Museo", 1977), di Enzo L'Acqua e di Attilio Antibo (pavimento in terracotta con i giochi per bambini, Pozzo Garitta,1978), Muro Raku (piazzetta della Concordia,1978).
Tutti segnali della inesausta vitalità dell'ambiente creativo albisolese, la cui costante è quella di non appagarsi mai e di ricominciare ogni volta una nuova avventura artistica.

Franco Dante Tiglio
Savona 18 ottobre 2000



Oggi nell’arte esiste di tutto e di più. Nell’uso dei materiali, nei metodi d’espressione, nei modi di presentazione non vi è limite. Tutto è concesso, tutto permesso.

La ricerca di audience, di pubblico, di visibilità porta gli autori, spesso, a ignorare il limite del buon gusto, dell’equilibrio. Talvolta il “confine” dell’arte viene ignorato, superato in eccesso o in difetto.
Capita guardando le mostre d’arte, ad ogni latitudine e longitudine del globo, di assistere a una moltitudine di linguaggi spesso in contrasto, a “contenuti” diversi fra loro, a ricerche espressive diametralmente opposte, quasi l’arte fosse attraversata da uno spasmo.
E’ come se l’artista oggi fosse alla ricerca frenetica di una direzione, di una strada che porti oltre, senza porsi il problema se debba esistere, se esista un confine.
Il discrimine fra artigianato e arte sta nel rapporto con la committenza.
L’artigiano risponde al mercato, assolve le esigenze del cliente, l’arte risponde solo e unicamente all’autore.
Il plauso del pubblico o dei critici o del mercato determina il successo, ma il successo non determina se sia arte o artigianato. E’ l’autore stesso che decide se aspirare all’arte o all’artigianato (Dio ci salvi dalla velleità artistica); il pubblico o i critici o il mercato diranno, prima o poi, se la sua arte o il suo prodotto di artigianato è meritevole.
Il fatto che l’opera d’arte o il prodotto di artigianato abbia o meno attirato l’attenzione dei media, del mercato, dei collezionisti, dei critici  non significa nulla ai fine della sua collocazione nell’uno o nell’altro ambito.
Credo non possano esserci dubbi sul fatto che l’opera d’arte obbedisca a un processo di significazione.
La questione è su cosa debba rappresentare.
Oggi sembra si abbia bisogno di cose straordinarie per vivere, la fantasia non basta neppure più.
Io credo che l’uomo, l’artista prima ancora di ricercare nuovi confini che lo portano a gridare, schiamazzare per attirare l’attenzione, debba guardarsi intorno, con semplicità.
Non c’è necessità di rappresentare il reale in un mondo in cui abbiamo ogni mezzo tecnico per farlo, dalle macchine fotografiche ai video; siamo spiati, controllati attraverso i telefoni, i conti bancari, i satelliti.
Non c’è necessità di “creare” il bello; la natura, le montagne, gli odori, le donne, i cani, il cibo, il sole e le nuvole sono opere “informali” straordinarie.
Non c’è necessità di istigare strumentalmente emozioni (tanto meno quelle sgradevoli); la televisione, la comunicazione, ciò che ci circonda ci subissa di emozioni già in eccesso. Perché tentare di scioccare il pubblico? Bastano già le sirene delle ambulanze e le Harley Davison a rompere le palle in assoluto.
E’ necessario invece ritrovare le “nostre” emozioni nel quotidiano, “divertirsi” a raccontare quello che la nostra mente elabora.
Chi è l’artista?
Questa domanda viene forse prima di che cos’è l’arte?
Io credo che oggi il mondo sia povero di emozioni, quelle vere, quelle semplici, derivanti dallo stupore del quotidiano, quelle emozioni portate dall’osservazione piacevole di quello che ci circonda.
E’ necessario ritrovare le “nostre” emozioni nel quotidiano, divertirsi nel raccontare quello che la nostra mente elabora.

Il vecchio aneddoto relativo al bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto indica che le stesse cose, le medesime situazioni possono essere viste e vissute in modo diametralmente opposto dalle singole persone.
L’artista, dotato di maggiore sensibilità estetica ed emotiva, deve con gusto, innovazione ed equilibrio, dar forma alle “emozioni”.
Walter Benjamin
Scrittore e filosofo tedesco 1892 - 1940
da L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Einaudi, Torino 1966
“Era stato sprecato molto acume per decidere la questione se la fotografia fosse un’arte, ma senza che ci si fosse posta la domanda preliminare: e cioè, se attraverso la scoperta della fotografia non si fosse modificato il carattere complessivo dell’arte” (1936).

Come nel campo dei colori esistono elementi primari che sommati l’uno all’altro generano la molteplicità delle sfumature, così anche nella “comunicazione” esistono elementi primari.
La postura (atteggiamento o movimento), il suono (evoluto in linguaggio o in musica), il segno (modificazione di un materiale; bidimensionale: disegno, scrittura; tridimensionale: modellato, architettura) non sono altro che gli strumenti primari di comunicazione fra le persone.
Il fatto di utilizzare gli “strumenti di comunicazione”, semplici o complessi, non determina affatto che la “comunicazione” per cui essi siano stati usati debba essere collocata in un ambito artistico o meno.
Se la “fotografia“ sia arte oggi è una domanda sciocca; se io scatto una fotografia il risultato rientrerà a volte nella categoria di artigianato (quando per esempio fotografo un vaso per un catalogo), oppure in un “racconto domestico” (quando fotografo mia nonna perché me lo chiede mio padre) altre volte invece obbedirà ad un’intenzionalità strettamente artistico-creativa (quando l’immagine risponde a regole elaborate esclusivamente da me).
Quando fotografo il bollitore dell’acqua calda posato sulla mia stufa a legna perché ho voglia di conservare quell’immagine che mi ha dato un’emozione (perché era una bella immagine, perché mi ricorda qualcosa o perché mi è utile per trasmettere ad altri una mia sensazione) sto facendo “arte”?
Sto “producendo” arte? Credo di si, se lo faccio con onesta intellettuale per il mio piacere.
Diventa arte se il risultato raggiunge uno standard qualitativo? Credo di no.
Sono convinto che non si possa affermare che un oggetto sia o non sia arte partendo da un giudizio estetico, ma si debba affermare che esso sia o non sia arte partendo dall’analisi delle motivazioni che hanno mosso l’autore nella fase della creazione.
Se la finalità è stata quella di soddisfare un cliente anche ipotetico si tratterà di artigianato, se la finalità è stata quella di rappresentare un’emozione, sottostando unicamente ad un proprio criterio di giudizio allora è arte.
Ciò non significa in assoluto dimenticare il significato etimologico di arte (ars, techné): ovvero saper fare.
Certa è la necessità di saper utilizzare in modo pregevole gli strumenti di comunicazione.
Così come è altrettanto indubbio che possano esserci diversità di contenuti e che il successo di un lavoro dipenda dalla capacità dei singoli artisti di porre contenuti e dalla loro capacità di fare determini il successo.
Le emozioni hanno vita breve. Le emozioni hanno vita eterna. Le emozioni sono un attimo, nella loro purezza, ma se belle e forti, pur modificandosi, durano in eterno in noi.
Una situazione vissuta crea in noi un “ricordo” che nel tempo si trasforma, viene rielaborato, talvolta dimenticato oppure rimosso.
Però più il ricordo o l’emozione sono forti più rimangono intatti in noi.
“Lo ricordo come allora” oppure “provo la stessa emozione di allora”; non c’è “matericità” nel dopo, la materia è necessaria prima e durante l’evento.
Così è per l’arte e la sua materialità.
Bisogna superare il concetto che l’opera d’arte debba essere eterna. Non è necessario. L’opera d’arte ha una sua vita, non necessariamente deve rimanere immutabile all’infinito.
Anzi, se essa rappresenta o racconta un’emozione essa può modificarsi nel tempo, può essere “calpestata”, rivissuta; il superamento della tangibile concretezza dell’opera d’arte è arte in se stessa, come le emozioni vivono dentro di noi senza bisogno di incarnarsi in un oggetto o in un valore simbolico.

Tullio Mazzotti

14 ottobre 2001 - 3 agosto 2002




 
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